Fra i giorni della Pasqua e il settembre che annuncia i venti dell’autunno, nella Lucania più profonda e solitaria, fra le rocce delle Dolomiti Lucane e la montagna corale del Pollino, si celebrano, in un’euforica e faticosa eccitazione, piccole-grandi feste degli alberi.
Per gli antropologi più tradizionali, ad Accettura, a Pietrapertosa, a Castelmezzano, a Oliveto Lucano, a Gorgoglione, avvengono autentici matrimoni degli alberi, sposalizi fra il Maggio, U’ Muosc, un cerro, albero maschio, e la Cima, un agrifoglio, pianta femmina. In realtà i vecchi ricordano che questa, semplicemente, era la festa del Maggio, la festa dell’albero.
Nel massiccio del Pollino (Alessandria del Carretto, Rotonda, Castelsaraceno, Terranova, Viggianello) sono invece un faggio, a’ Pitu o a’ Pita, e un abete, la Rocca (a Castelsaraceno è la Cunocchia), a unirsi in un rituale che celebra il passaggio delle stagioni, il mutamento e la trasformazione della natura.
È augurio festoso di fertilità. In nove paesi della Lucania, gli alberi e gli uomini sono protagonisti di giorni grandiosi. Colmi di ebbrezza, fatica, lavoro durissimo, adrenalina, cibo e vino. È festa che vale l’intera annata.
Per la gente di questi paesi le feste degli alberi sono identità, storia di solidarietà, memoria del passato e certezza del futuro. Sono giorni attorno ai quali si aggrappa la contemporaneità di questi paesi, la loro esistenza e ragione di essere.
Oggi, nelle feste degli alberi, s’intrecciano religione (il culto di sant’Antonio, di san Giuliano) con momenti di sincretismo dalle origini pagane.
Tornano gli emigrati, gli studenti fanno migliaia di chilometri pur di essere al paese nel giorno della festa, torna anche chi vive in Inghilterra, in Germania, in Svizzera. A Rotonda si torna dall’Argentina per la festa. I paesi ritrovano il loro popolo. Si fatica e si balla assieme. Si mangia in abbondanza e si beve con felicità. Si lavora per giorni e giorni (il taglio degli alberi, il trasporto con i buoi dei tronchi, la loro lavorazione, l’innalzamento, la scalata) perché la festa riesca. La fatica è immensa.
Questa è un’Italia lontana. Sconosciuta. Queste sono feste dei paesi. Appartengono alla gente dei boschi e della montagna. Per goderne davvero, chi viene da fuori deve faticare, mangiare, spingere, prendersi piogge e sole assieme ai paesani. Per giorni, non valgono le regole normali. In tempi andati queste feste erano anche la raffigurazione di un mondo capovolto: i cafoni, i contadini poveri, i massari con i buoi diventavano ‘padroni’ del paese, ribaltavano le regole e, per qualche giorno, erano loro a essere importanti. Avevano sapere, forza, competenze per tagliare, trasportare e innalzare l’albero.
È straordinario che queste feste, dalle origini incerte, siano sopravvissute fino ai nostri tempi. Riti arborei sono presenti in Calabria e anche nel Nord (in Italia, in Germania, in Svizzera), ma è sorprendente che in Lucania, in una regione geografica ristretta, vi siano così tanti paesi dove avvengono queste cerimonie. E ognuno di questi luoghi è geloso della propria festa.
Ed è altrettanto straordinario che i riti arborei, così antichi e così tradizionali, siano partecipati, con entusiasmo e passione, dai ragazzi e dai giovani del paese. Con i capelli a cresta, i piercing e i tatuaggi, questi ragazzi si sono impossessati di parte della festa e l’hanno fatta propria.
Ma ciò che ci ha convinto di provare a raccontare queste feste è un gruppo di ragazzine che, ad Accettura, indossava una maglietta bianca con su scritto:
‘Se ripassate fra cento anni, noi saremo ancora qui’.
Andrea Semplici